I miei nonni
Dei racconti scritti fin'ora questo è il più personale. Come si intuisce racconta dei miei nonni, materni per essere precisi. Anche questo è stato frutto del corso di scrittura che ho seguito tempo fa.
So, o almeno credo di sapere, che nacquero entrambi vicino ad una ridicola collina incastonata nelle campagne della mia terra, tra una strada che poi diventerà importante e i binari della ferrovia.
Tante volte ho immaginato il loro primo incontro… La vedo, laggiù, un po’ defilata: statura media, capelli neri, bella, in un vestito nero a pois stretto da un nastro rosso sulla vita sottile; due occhi profondi ma intimoriti da tutto. La osservo rifiutare, per codardia, la mano di quel ragazzone alto e sicuro di sé, capello impomatato ben curato con in bocca una sigaretta appena accesa, circondato dagli amici e stimato da tutti. Sono sicuro che lei lo ha rifiutato, ancora e ancora. Non chiedetemi come lo so, lo so e basta.
So anche che lui non ha mai mollato: voleva lei. Avevano mani fatte l’uno per l’altra, e lui lo sapeva. La conosceva, sapeva che nonostante apparisse intimorita da tutto, era riuscita ad imporre un suo desiderio alla famiglia, un unico grande desiderio: non voleva lavorare la terra, voleva cucire. Dall’età di sette anni, da sola, aveva deciso che quello sarebbe stato il suo mestiere: ogni mattina era partita a piedi ed era andata sette chilometri più in là, verso il mare, per imparare. Le sue mani sono sempre rimaste bellissime. Lui invece faceva l’operaio, stava a padrone, in una fabbrica di fisarmoniche, ma faceva altri mille mestieri. Aveva mani grandi e forti, ma sempre incredibilmente perfette.
Le mani non mentono e un giorno, finalmente, lei aveva ceduto. Si era scoperta ad amarlo tanto quanto quel mestiere che aveva scelto: erano le uniche due cose che si era presa per sé. Lui la guardava sempre con sguardo sicuro e un po’ sognante; l’aveva scelta e se lei je lo avesse permesso le avrebbe dato il mondo. Sempre.
Lui non aveva molto da portarle in dote, ma spese quasi tutto per un anello di fidanzamento come se ne vedevano pochi. Nemmeno lei aveva niente, lottò, ma in quella famiglia di dieci tra fratelli e cugini non poteva che donare un piccolo anello striminzito. Soffriva di non aver potuto ricambiare il pegno d’amore e pianse. Lui che non riusciva a vederla triste lottò anche per lei, perché quel pegno fosse degno di quello che lei provava. Fu un piccolo miracolo ed un gran trambusto, ma da quella volta nessuno mise più in dubbio quello che avevano. Lui è sempre stato così, odiava i compromessi e lasciare che gli altri decidessero per se.
Li ho conosciuti che erano già passati tanti anni da questi eventi. Quando mia mamma era appena ventenne il nonno soffrì di un male incurabile da cui non si riprese più. Quella volta, in un attimo, mia nonna capì di aver perso l’occasione per troppi balli. Ora lui era lì, fisso alla finestra: le rimaneva solo il suo lavoro. Con il passare degli anni si era un po’ ristretta, ma era ancora graziosa, sempre composta nel vestire e con i capelli in ordine. Il fisico di lui era ormai debole ed il suo volto dimostrava molti più anni di quanti indicati dalla carta di identità.
Lei cuciva in un angolo mentre lui, fisso un po’ più in là, non poteva più parlare bene ne muoversi, ma i suoi occhi dicevano tutto: come gli sarebbe piaciuto portarla a scoprire il mondo. Ricordo gli intensi pomeriggi di lavoro della mia nonnina, sempre china su un nuovo quadrato di stoffa. Aveva le mani magiche, riusciva a trasformare un pezzo di stoffa “giusto per una gonna” in un intero vestito. Lui osservava tutto con lo sguardo sempre vigile su di noi, pieno di quello che ora so essere stato amore incondizionato.
Ricordo i pacchetti di sigarette fumati, nonostante la malattia, uno dietro l’altro e nonna sempre troppo indulgente. Ricordo quando lui aveva degli scatti d’ira, per frustrazione o per dolore; ricordo che poco dopo averle urlato si richiudeva in un silenzio assente e pesantissimo. Lei assorbiva tutto, comprensiva, e tornava a cucire. Ricordo i sorrisi di lei e i modi un po’ ruvidi con cui, nonostante i problemi in casa, non smetteva di aiutare chi le stava intorno. Ricordo che eravamo tutti stretti intorno a loro due. Ricordo quei momenti in cui la malattia chiedeva pegno e lei restava al suo fianco con lo sguardo un po’ assente ma mai titubante. Ricordo che lei si è sempre lamentata di quella situazione, ma non ha mai ceduto, nemmeno un momento. Lui non ha mai smesso di chiamarci, con un filo di voce, anche quando non ne aveva davvero più; avesse potuto ci avrebbe davvero dato il mondo. Ricordo la loro lotta contro la malattia: i pugni serrati di mio nonno che non si voleva arrendere e gli occhi pieni di lacrime di mia nonna.
Alla fine, quando se ne è andato, lei non pianse nemmeno una goccia, era sollevata, finalmente quel male atroce lo aveva lasciato. Se solo lo avesse ascoltato quando era il momento… Parigi, insieme, sarebbe stata bellissima.